Numerosi erano un tempo gli opifici (per la canapa, la segale, l’olio di noci). Oggi le poche mole che si trovano abbelliscono terrazzi e giardini.

Cucina e medicina:   introduzione

     Questa sezione che con rapidi cenni tratteggia la medicina e la gastronomia di un tempo, mette in evidenza come in una società di pura sussistenza si cercasse di far fronte alle malattie e alla fame con quanto la natura cisrcostante e l’esperienza tramandata da generazioni potevano offrire. Erbe di montagna, foglie di bosco e qualche altro elemento insolito, sapientemente mescolati, portavano sollievo ai piccoli malanni quotidiani e avevano il grande vantaggio di non costare nulla.
     Le testimonianze riguardanti la preparazione del cibo mostrano come, con l’estrema scarsità di ingredienti a disposizione, si mettessero sulla tavola una notevole varietà di piatti che ancora oggi vengono preparati e apprezzati anche se a parecchi si è ormai dovuto rinunciare perché scomparse le attività che ne producevano la materia prima.
      L’alimentazione quotidiana vedeva l’alternanza di polenta e formaggio a mezzogiorno, e di minestra di riso la sera. Al mattino ci si accontentava della minestra avanzata la sera prima o di una molle polentina, il truset. La farina di mais e il riso, insieme ad un po’ di pane bianco, erano quindi gli unici prodotti acquistati. Malgrado la loro essenzialità, i cibi d’in bot sembrano far parte di quel bagaglio di ricordi e di nostalgie che quasi fanno rimpiangere un’epoca scomparsa che pur nella sua durezza sapeva offrire momenti di condivisione davanti ad in toc ad furmač e al mez dul vin, il boccale che veniva fatto passare da uno all’altro.
     Così, semplici cibi che sono stati esclusivo nutrimento per molte generazioni sono ancora sulle mense, scelti non più per il bisogno e le ristrettezze, ma per il gusto e il sapore che hanno. E anche se non è facile capirne la ragione, non sono pochi quelli che ancora preferiscono all’aroma del caffè della moka il gusto semplice ed inconfondibile del caffè dul pariulin, meglio se arricchito con un po’ di bir cöč.

Mali e medicina: testimonianze

IL CIBO D’UN TEMPO
      Il cibo di una volta era riso e fagiolini, riso e cicoria, patate e fagiolini, polenta molle e latte, polenta e panna, polenta e fiur, gratit e panna, minestra, ammazzafame, patate e pasta; e sugli alpeggi per lo più era riso e spinaci selvatici.

MINESTRA NEL PAIOLO DELLA POLENTA
      Minestra nel paiolo della polenta: prendi il paiolo della polenta; tira via le croste dal fondo e lascia quelle attorno; e poi fai la minestra in questo paiolo. Sapessi come viene buona

AMMAZZAFAME
     Ammazzafame: si mettono nel paiolo patate bollite e farina di mais e si gira come per fare la polenta.

PATATE  E  PASTA
     Patate e pasta: prendere un po’ di olio o un po’ di burro; a piacimento anche tutti e due; tritare una cipolla, tagliare le patate a pezzi e farle rosolare; quando sono ben rosolate, mettere la pasta e un po’ d’acqua; quando l’acqua è quasi tutta consumata, aggiungere latte e formaggio e far consumare in modo che faccia un po’ di crosta sul fondo; questa crosta viene bene con la pentola di alluminio; si può fare anche con quella di acciaio, ma sanno di bruciato e il piatto è meno buono.

BURRO COTTO
     Porre il burro fresco in una pentola piuttosto alta, perché se comincia a bollire non si ferma più, neppure a toglierlo dal fuoco: condizione essenziale è non farlo bollire. Si fa cuocere per circa due ore a fuoco molto basso. E’ cotto quando, guardando nel paiolo, ci si riesce a specchiare. Si lascia raffreddare e si versa ancora liquido nei vasetti di vetro. Una volta lo si metteva nei recipienti di sasso. Ricordo che a casa avevamo tutti recipienti di sasso. Chiudere i vasetti quando è freddo. Si conserva a lungo, anche per un anno.
     Nella cottura si produce una schiuma che bisogna togliere con un cucchiaio. Una volta rappresa si può mangiare, a molti piace. Certo che il colesterolo…
Una volta, dopo aver vuotato il paiolo, si versava acqua, la si lasciava raffreddare e si toglieva il grasso rappreso; in quell’acqua si facevano bollire le patate. Si nutrivano così…

MANGIA’ D’IN BOT   (Pia)
Ul mangià d’ in bot  l’era riš e bajan, riš e zicoria, trifuli e bajan, trušet e lač, pulenta e cörn, pulenta e fiur, gratit e grasa, amnestra, mazzafam, trifuli e pasta sič; e si pa į èlp pal pi l’era riš e bricöi.


AMNESTRA  INT UL  LAVENSC  (Gino G.)
     Amnestra int ul lavensc dla pulenta: ciapei ul lavensc dla pulenta; tiréi via al crost d’an fund e daséi qui in gir; e t fei l’amnestra int ul lavensc. T sisi me ch’la vegn buna!

MAZZAFAM   (Pia)
     Mazzafam: u s met ji par ul lavensc trifuli cöč e farina ’d pulenta et u s truša tant me fa pulenta.


TRIFUI E PASTA SCIČ   (Pia)
     Trifui e pasta sič: u s ciapa pena d’öli o pena ’d bir o anca tit dui, pus u s tria ji na scigola, i s taian i trifuli a pez e i s fan rušulà; quand in pasà ben int ul bir u s met ient la pasta, in po’ d’acqua, e quand in tost sič u s met ient ul lač e ul furmač e u s dasa sigà ch’u faga la grateta; la grateta la vegn mei cun la pela d’aluminio; la s po fa anche cun quela d’acciaio, ma i san da brišù e ’ndura in migna bui. 



BIR CÖČ   Rina)
     Par fa ul bir cöč u gh è da metul jindà cun la pignata anca ’n po’ granda, auta perché s’u boi ch’u vegn si da scapà, ul bir u n’ul fermei pi, gnanca a tiral indré, u scapa tit. U va sta ’tent a fa boia ul bir. E s fa boia anca par in para d’ur, però u g ha da na pian, pian pian. E par gnosa quand l’è cöč, u bsögna vardà ji asuì in la pignata: u spicéi dent, u veghì ul grogn: oh vara! l’è cöč; quand l’è cöč mi ’l lasi gni pena freč e a fag si tit i vašit. In bot i favan si l’ola ad sas; nui sindà a ca a gh evan tit į ol, invece ades mi a fag si tit i mei vašit e pöi a i tegni in dispensa. Int i vasit u s met quand l’è ’ncù liquid, quand l’è quasi freč… u ųa lasal gni pena freč se no u uo sčapà i vašit. Migna quercial a caud ch’u resta ul vapur sura; quand l’è bel e freč quercei ul vos vašet e u sta lì, u s cunserva. Mi a la Piana a vag si da ’n an cun l’aut, difatti a g ho si tit i vašit.
     E quand u vegn si ’l bir, u gh è la schima, la vegn si ’n po’ culurìa, marunet, e ’ndura cun la chigiara u s va dre schimà, tirà dre la schima, la s met int ina scuèla; a mi a pures mi’ mangiala, ma mi la m piaseva, mi la mangiava. E pus, quand u s è vuįù fo ’l bir da la pignata, in po’ u g resta semper ji ’n po’ ’d fund, indura a g matevan ient l’acqua; lasala culà, quand l’era culà che l’era gnicia fregia,  cun la chigiara tirà indà cul šgrasù lì, e ’ndura i g favan boia ient i triful in quel’acqua lì dul bir e pö mangià… l’era tit mangià d’in bot.

La cucina: testimonianze

LA MADRE DELL’ACETO
     La madre dell’aceto: la usavano sulle slogature, contusioni e altri mali simili; facevano applicazioni per togliere l’infezione.

GOCCE DAI TETTI
     Le gocce di pioggia dai tetti servono per le verruche; le legavamo con filo da cucito, le stringevamo con un nodo e quando pioveva le mettevamo sotto agli strajier, l’acqua che scende dai tetti quando non ci sono le gronde.

MALE AI PIEDI
     E per andare in montagna si calzavano sempre le pantofole. Sempre. E poi scalzi per i prati; scalzi: veniva poi tra le dita… che male! E allora le fasciavamo con un po’ di canapa o un po’ di lana e guarivano un po’. Era la medicina di una volta.

I PIDOCCHI
     Quando si diffondevano i pidocchi andavo ai Prei, raccoglievo la radice degli aulèr. Venivo a casa, la facevo bollire e lavavo la testa con quell’acqua.

LA FEBBRE MALTESE
Tutto è iniziato nel 1947, quando gli antronesi hanno portato qui le loro capre, magari già ammalate. Le portavano nella valle del rio Frera; però poi queste capre sono scese a Cheggio ed è iniziata la strage della febbre maltese.
In primavera le capre abortivano, morivano; tutto attorno a Cheggio si trovavano capre morte, capre nostre, degli abitanti di Antrona, di Schieranco…
Ricordo che la malattia incominciava con febbre e un forte mal di testa. So che ci sono stati molti morti (1).  E poi nel 1949 nuovamente, nella primavera, di nuovo un’epidemia; si sono ammalati mia mamma, nonna Maria, zio Giuseppe, zia Anna, Egidio che poi è morto… quasi tutta la frazione si è ammalata tra il ’48 e il ’49.
In altri paesi, come a Bordo, non ricordo… ce ne saranno stati anche lì di ammalati, però… avevo solo dodici anni, non ricordo. A Viganella qualcuno, non tanti; la moria è stata a Cheggio: tanti ammalati e tanti morti.
Dopo il ’49 non ricordo che si sia ripetuta.
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1) Maria elenca poi i morti: cinque o sei, è un po’ incerta, su    un numero complessivo di cinquanta abitanti circa il 10%.    Tra questi sua nonna Maria (moma Ia) e Carlo Erba, detto    ul mat ’d l’Erba, colui che suonava l’armonica quando i    giovani si riunivano sui fienili a ballare (si veda “FESTE E    RICORRENZE – andare a ballare” p. 13/15). In un    successivo incontro mi parlerà anche di una ragazza di    vent’anni morta a San Pietro, frazione di Antrona.

LA PANA  ’D  L’AŠE’    (Maria Anna)
      La pana dl’ašé: i la druavan a meta si i slogatür e qui rob lì; s at pichivi via da na quai part, ’ndura i matevan sì quela lì per tirà fo l’infezion.

STRAJIER      (Maria Anna)
     Strajièr l’è par l’arvìg ; nui a ciapavan ul fil e i n ai favan ligà, fa sì ul grop sì st’arviga, e quand ch’u piuveva a i matevan sot ai strajièr, ch’l’è l’acqua ch’la vegn jì dau teč quand ch’u gh è migna ’d canai.


MAL AI PEI   (Angiolina)
     E na ’n muntagna semper cun si i pzöi. Sempar; e pus scuz, fo pai prai scuz, u gniva pöi… int i dui ina mal! E ’ndura a i vitavan pö si cun ul canu e pena ’d lana e ’ndura i varivan in po’. L’era al medišin d’in bot.


I PIÖČ     (Pia)
     Quand in bot u gh era i piöč, mi a nava ai Prei, e cuįeva la radiša dį aulèr; a gniva a ca, a la fava boia, e pö a lavava la testa par nag ji i piöč.

LA MALTESA     (Maria Anna)
     Tit l’è gmanzù dul quarantaset quand sti crau į han manzà purtai fo qui, qui da ’n Antruna, i sös, magari ja malavi. I purtavan pö ient pa la val, però logico, i gnivan fo, i gnivan lì a Cheč ainò ch’u gh è stač la strage ad la malteša.
     A la primavéria i favan l’abort, i bortivan ul cravet, i crepavan, logico perché dopo lì ’nturn a Cheč t truivi tit sti crau mort, crepà, crau che į eran dau nost e di sös, di chefi
     Mi m ricordi che į han manzù cun feura e ’n gran mal la testa. So ch’u gh è stač tenci mört. E pö dul quarantanou indura turna, la primaveria, in turna gnič malavi, u gh era moma Ìa, u gh era moma migna, u gh era barba Isapìn, u gh era lama ’Neta, u gh era Gidio ch’l’è mört… quasi tita la frazion a seran malevi, tra quaratot e quarantanou; in tit la frazion sarem be ’ncù na cinquantina forse, più o meno. Quaši tit a sema gnič malavi.
     Fora da Cheč, me Burd, a m argordi migna… magari u g n era anca lì, però… a gh eva dodas agn… a m argordi mia. In Viganela in quandin, mia tenci; il piséi l’è be stač a Cheč: propi tenci malevi e tanci mört. Dop al quarantanou a m ricordi mia che u g an sia stač incù.

La mola usata un tempo per l'olio di noci.
Olla di pietra ollare in cui si conservava il burro cotto.
Da leggere stràji-èr

sös - chefi: nella valle gli abitanti di ogni paese hanno un soprannome: quelli di Antrona son detti sös, di Schieranco chefi, di Viganella vigùi (significa api selvatiche), di Seppiana cai (cani), di Montescheno ghet (gatti).